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Oceano e Champagne

Oceano e Champagne



L’Oceano Pacifico oggi è teatro per grandi fortune o assenze decisive di molte nazioni d’avanguardia. Nella sua storia il Pacifico è stato più campo d’attrazione per esperimenti rivoluzionari e partite d’assalto - guerre comprese - che area di popolamento  e di economie di una certa stabilità. 
Qui nel Cinquecento - per ciò che riguarda la storia a cui apparteniamo -  sono venuti i primi esploratori, Balboa, Magellano e il nostro Pigafetta che ne raccontò l’avventura; nel Seicento i primi topografi, Menana, Tasman, Dampier; nel Settecento i  grandi ammiragli inglesi e francesi, Cook, La Perouse,  Bougainville; nell’Ottocento le potenze coloniali col loro sfruttamento; nel Novecento le piccole imprese coraggiose  e le grandi guerre sterminatrici.
Ma tutto ciò è soltanto uno spunto, per quanto emergente, di una storia fitta di eventi, come le stelle in cielo. La storia del Pacifico con le sue isole è un laboratorio vivente per l’avventura dell’uomo. Il futuro generale del mondo dipenderà da qui, dai nascosti e grandi intrecci  che lo attraversano. Il nostro paese è lontano da questo centro del futuro che spesso ci appare come un’area più da favola che non da interesse immediato. Tutto ciò presto cesserà. Intanto, vogliamo raccontare un’ultima storia da mari del sud, la storia di una stella che per un attimo ha illuminato questo oceano come una piccola supernova di abbagliante splendore, sparita in un lampo.
E’ una ballata del secolo scorso, assolata nel rapporto di denaro, gloria e piaceri immediati da belle Epoque, periodo appunto nel quale si svolse. E’ la storia di Emma Coe, regina dei mari del sud in una vicenda che supera nella sua grandiosità i racconti di Stevenson, Maugham e Michener.
Emma Coe nacque nel 1850 a Samoa  da una principessa polinesiana e da un mercante americano, ereditando il sangue caldo materno e la determinazione di quello paterno. Dapprincipio prevalse il primo, poi il secondo, mai disgiunti però. Educata a San Francisco e a Sydney, Emma iniziò a stupire e a vincere molto presto. Aveva l’ovale del viso di certe eroine romanzesche dalla bellezza sensuale, con carattere e vizi splendidi, regina spontanea di una storia avventurosa quasi banale per i suoi eccessi d’amore, odio, trionfi e tragedie. Ricca, ma non del tutto, Emma esordì con fughe da casa, affari turbinosi, storie sentimentali devastanti. Aveva l’ambizione di Giuseppina Beauharnais, la determinatezza senza scrupoli di Lady Hamilton, la sensualità di Paolina Borghese.
Ma il suo mondo era il Pacifico e non l’Europa del primo Ottocento, e decise di vincere, cioè di godere al massimo della vita, nel suo oceano.
Samoa, le lotte per l’indipendenza e la colonizzazione la scossero, ma comprese subito che in un mondo così chiuso alle donne e in più a quelle della sua razza, poteva fidarsi soltanto di se stessa. Usò tutte le armi della femminilità. I suoi comandamenti erano godersi la vita e diventare molto ricca covando sempre la sua vera famiglia, quella d’origine, cioè, e formandosene man mano altre per convenienza. Ma amando anche queste, finché non si mettevano contro quella d’origine, samoana. Rispettò il suo credo fino all’ultimo.
Avvenne tutto tra il 1870 e il 1913, anno in cui Emma se ne andò - all’alba della prima guerra mondiale -   presentendo negli acciacchi del suo fisico, troppo esaltato e provato,  la fine di una “belle epoque”  che doveva di lì a poco travolgere il mondo intero. Ma che lei pensava risparmiasse il suo piccolo sperduto impero economico, cresciuto attorno alla favolosa villa di Gunantambu, dove aveva vissuto sotto la chiostra di vulcani di un’isola, la Nuova Bretagna, a nord della Nuova Guinea. Questo fu il suo regno, migliaia di chilometri lontano da Samoa.
Quando lei vi giunse col primo marito, era ancora terra di nessuno. Emma ne acquistò  dai nativi, non facili a trattarsi. S’impose a tutti, poco alla volta, con arte amorosa, implacabile. Diventò per tutti la regina, Queen Emma. Attraverso relazioni turbinose d’affari e d’amore – massima delle quali fu la passione per il gigantesco capitano dalmata Agostino Stalio -  si costruì un autentico regno tra piantagioni, vascelli privati e favolose feste isolane a base di cibi raffinati, venuti anche dall’Europa. Pasteggiava sempre a champagne.
Autentica ape regina, Emma dirigeva un alveare plurirazziale di familiari, discendenti, mercanti, studiosi e militari. Trattò coi tedeschi che occuparono di lì a poco la sua isola, annettendosela. Attraverso spettacolari interventi e lunghe dispute li domò. Alla fine ne sposò uno per evitare espropri e noie.
Munifica e terribile nella sua sensibilità polinesiana, tenne sempre i cordoni della borsa. Come Cesare venne, vide e vinse. Se ne andò dalla sua villa nel 1907, favolosamente ricca e ingrassata, lasciando le piantagioni al figlio del primo matrimonio. Andò a curarsi in Europa. Visse a Parigi, Roma, Berlino, ricevuta dal Kaiser  e altri potenti.  Era una regina, ma al tramonto ormai. Dopo qualche viaggio a casa, visse l’ultima avventura a Montecarlo. Fu una fine da Belle Epoque.
Inseguiva il marito tedesco fuggito con un’altra donna. Non ce l’aveva tanto per questo tradimento, abituata com’era ai suoi di salti amorosi. Ma non voleva che il marito le sopravvivesse, temendo che legalmente andasse a lui il suo immenso patrimonio, con cui pure lo manteneva largamente. La regina voleva che andasse tutto, o quasi, alla dinastia polinesiana, al figlio maggiore di nome Coe, come il suo cognome d’origine. Suddita germanica, le sue terre si trovavano in territorio coloniale tedesco, Emma conosceva le regole ferree dei tedeschi.
A Montecarlo, appena raggiunti marito e rivale, ci fu una spiegazione che comunque dovette essere penosa. Sia lei che il marito, anziani gaudenti, erano malati. Il giorno dopo il marito era morto. Attacco di cuore, si disse. Due giorni dopo, il 21 luglio 1913, anche Emma moriva. Altro attacco di cuore si disse. Per suo espresso desiderio, i corpi furono cremati, le ceneri non identificate, inviate in due cassette alla villa di Gunantambu, dove il figlio Coe le inumò, una accanto all’altra. Per riconoscerle il figlio disse: “Mia madre era corpulenta, la cassetta più pesante è la sua”. Accanto, nello stesso cimitero, stava la tomba del capitano dalmata Stalio, grande amore di Emma.
Qualche settimana fa sono tornato a cercarle, vicino a Rabaul, in Nuova Bretagna. Le scoprì nel verde dell’abbandono rigoglioso mio nipote veneziano Lallo Bianchini, con cui viaggiavo. Più giovane, ci arrivò prima. Scoprì anche che le ceneri di Emma erano state portate via. Sulla pietra marmorea di Stalio restava una frase, dettata da lei:
 “Oh, per la carezza d’una mano svanita, e per il suono di una voce che s’è fermata!”. 



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